Il RISPETTO è certamente uno dei “valori della vita”.
Il Rispetto verso tutte le persone e le cose che ci circondano, il rispetto per la società e per le regole del vivere civile e, innanzitutto, il rispetto per noi stessi, per le nostre potenzialità intellettive, per il nostro “essere”, per il nostro sapere e saper fare.
Ma cos'è il RISPETTO? Da dove deriva? Da cosa è alimentato?
Vediamo la definizione di “Rispetto”: sentimento e comportamento informati alla consapevolezza dei diritti e dei meriti altrui, dell'importanza e del valore morale, culturale di qualcuno o di qualcosa.
IL RISPETTO: è un valore che comporta la capacità di "vedere", cioè di "accorgersi" e ancora più conoscere l'altro ed è un valore che richiede una forte intenzionalità: è un valore da vivere con coerenza. Non possiamo aspettarci il rispetto di chi non rispettiamo.
Mancanza di rispetto significa quindi mancanza di riconoscimento: la persona coinvolta non viene vista come essere umano pieno e diventa quasi invisibile.
Quando in una organizzazione il riconoscimento viene accordato solo a poche persone e circola solo tra poche persone si crea una carenza di rispetto, come se fosse una sostanza troppo preziosa per essere distribuita a tutti. Ma il rispetto, a differenza del cibo, non costa nulla. E non solo è gratuito, ma è anche capace di generare valore. Perché, allora, continuiamo ad alimentare questa carestia?
La società occidentale ha elaborato tre modalità capaci di portare le persone a meritare o meno rispetto:
- La crescita professionale, sviluppando abilità e competenze. La persona di grande intelligenza che spreca il suo talento non ispira rispetto, a differenza di una meno dotata che sfrutta le proprie capacità. Lo sviluppo personale diventa una fonte di stima sociale in quanto la società condanna lo spreco e premia l’uso efficiente delle risorse.
- La cura personale. Nel senso di non diventare un onere per gli altri. La persona autosufficiente merita rispetto. Questo modo di guadagnare rispetto deriva dall’avversione per il parassitismo. La società non ama la dissipazione di energie e non desidera essere assillata da richieste ingiustificate.
- Il dare agli altri: E’ la fonte più universale e profonda con cui una persona può ottenere rispetto. Dare agli altri non significa essere acriticamente buoni, generosi o altruisti. Significa avere carattere, ossia saper comunicare con gli altri attraverso strumenti sociali condivisi: leggi, regole, riti, media, relazioni, ecc. e saper interpretare continuamente le varie “partiture” sociali che si hanno a disposizione.
Ma in che modo dare agli altri genera rispetto?
A differenza dello sviluppo professionale e dell’autosufficienza, che possono rimanere ad un livello autoreferenziale, il dare agli altri crea reciprocità, sviluppa una relazione. Il dare, infatti, produce uno scambio. E lo scambio è il principio sociale che anima il carattere di chi contribuisce alla comunità.
Le nostre relazioni mettono radici solo nel momento in cui cessano di avere un’equivalenza. Gli scambi, per sussistere, continuare e coinvolgerci emotivamente, devono essere asimmetrici, ovvero di diverso valore. Possiamo dare agli altri una quantità illimitata di “oggetti immateriali”: fornire informazioni, esaudire le richieste di aiuto, interpretare i bisogni altrui, ascoltare, far raggiungere obiettivi, impegnarci nel lavoro di gruppo, negoziare all’interno di situazioni controverse, ecc.
Coloro che ricevono “subiscono” un sano debito psicologico: devono dare qualcosa in cambio, anche se non possono dare un equivalente. Devono dare per meritare rispetto agli occhi degli altri e ai propri. Allo stesso modo, se non chiediamo nulla in cambio (e ci riferiamo ad una richiesta non prevista, né calcolata, ma implicitamente attesa e non necessariamente sincronica) non riconosciamo alcuna relazione reciproca fra noi stessi e la persona a cui abbiamo dato.
La reciprocità, infatti, sta a fondamento del mutuo rispetto.
“Non esistono doni gratuiti”. E in questa sintesi illuminante risiede il senso e il valore della reciprocità. Lo scambio ci vincola con qualche forma di restituzione, simbolica o materiale che sia. E lo scambio asimmetrico (a differenza di quello economico che è una transazione breve, che nasce e muore nell’atto della permuta) crea relazioni e legami prolungati, che potenzialmente non hanno mai fine e che dovrebbero diventare la linfa vitale delle organizzazioni.
Il luogo di lavoro sta diventando, sempre di più, uno spazio nel quale i problemi da risolvere sono di carattere socio-emotivo piuttosto che operativo. L’obiettivo non è più quello di risolvere i problemi, ma di strutturare dei rapporti con i colleghi il più innocui possibili e fondati su un finto egualitarismo che tende ad eliminare o ridurre l’importanza dei ruoli e delle responsabilità che ne derivano.
In base a questa visione premiante del quieto vivere, è fondamentale far di tutto per dimostrarsi amichevoli piuttosto che competenti. Così succede chespesso chi cerca di fondare il rapporto sulle capacità e sul rispetto dei ruoli è tacciato di immodestia o di senso di superiorità, e per questo, escluso dal gruppo.
In un contesto del genere è molto difficile riuscire a strutturare un’autorità riconosciuta, perché spesso chi dovrebbe esercitarla non lo fa, o per incapacità o per “quieto vivere”.
Se l’obiettivo non è essere riconosciuti per le proprie competenze, per la propria esperienza o per i propri meriti, ma semplicemente essere accettati dal gruppo in nome di una finta uguaglianza, si comprende come sia impossibile essere dei veri leader e si comprende come venga sminuita anche la propria funzione. In mancanza di ruoli riconosciuti siamo tutti uguali, tutti con le stesse responsabilità, ovvero nessuno è responsabile.
La leadership non può venire richiesta come un favore, ma deve essere accettata dal gruppo. Meglio una leadership imposta che nessuna leadership.
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Ecco un valore citato in tantissime circostanze; o meglio, purtroppo, ciò che viene spesso citato è il suo opposto, ossia la scorrettezza.
La scorrettezza, ovvero la mancanza di correttezza, viene spesso stigmatizzata come comportamento ingiustamente lesivo di un diritto altrui, quindi potremmo dire che la correttezza inizia con il rispetto dei diritti dell’altro, diritti che non sono dissimili dai nostri e quindi il rispetto (altro valore) è elemento essenziale anche della correttezza: non può esserci correttezza senza rispetto.
Rispetto delle persone in primo luogo ma anche rispetto delle cose che ci circondano, dei beni che ci vengono affidati, di ciò che è anche nella disponibilità degli altri.
E’ la capacità di osservare noi stessi con gli occhi di qualcun altro. Ossia di contemplare le nostre idee e opinioni con distacco, soppesando prove e argomenti per la loro razionalità e non per la soddisfazione che ci danno “di pancia”. Anzi, a maggior ragione, proprio perché sono le nostre idee dobbiamo essere particolarmente spietati ed esigenti con loro e, di fronte all’evidenza dei loro limiti, della loro infondatezza o perfino della loro fallacia, dobbiamo saperli riconoscere.
Non solo: l’onestà intellettuale ci impone di saper portare le nostre idee alle loro estreme conseguenze, sempre nel rispetto della razionalità e della coerenza. Ovunque le conseguenze si trovino.
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Meritocrazia e pari opportunità
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Meritocrazia che grande cosa!
Tutti la invocano, ma pare che nessuno la conosca.
Se ognuno di noi scrivesse la sua definizione di “Meritocrazia in azienda” potremmo avere risposte molto interessanti, ma anche molto variegate.
Si potrebbe, ad esempio, rispondere che un’azienda meritocratica è quella che adotta una politica che premia il merito!
Ma cos’è il merito? Avere una laurea piuttosto che un diploma? Essere più svelto a fare una data operazione? Lavorare più duramente di altri? Distrarsi meno? Avere approfondite competenze specialistiche? Non stancarsi di approfondire le proprie competenze? Essere educato, cortese? Essere un buon coordinatore di persone? Conoscere bene ed utilizzare correttamente la propria lingua in forma sia orale che scritta? Conoscere altre lingue oltre alla propria? Saper parlare con i clienti? Saper predisporre buone procedure tecniche e gestionali? Rispettare le procedure tecniche e gestionali? Avere buoni rapporti con i colleghi? Capire e adattarsi ai cambiamenti, essere flessibili?
Non sono forse tutte queste ragioni di “merito”? E quante altre potremmo scriverne? Decine!
Allora, di cosa ha merito chi è meritevole? Come si misura il merito? L’aver ottenuto un risultato implica avere il merito per quel risultato? Chi ha avuto successo è perciò stesso meritevole?
Come si misura? Per effettuare valutazioni, e scelte, MERITOCRATICHE, è indispensabile rispondere a queste domande; allora potremmo essere più confidenti nell’adozione di un modello che premi, in diverse forme, le “persone di merito” ed incentivi tutti gli “Uomini di buona volontà” ad essere meritevoli.
Tuttavia, pur anche in assenza di risposte oggettive, ovvero incontestabili, riconosciute da tutti, la direzione di un’azienda che si sente orientata alla meritocrazia, tenta comunque di applicare criteri meritocratici nella gestione del personale.
Si hanno allora politiche, ma più spesso singole decisioni, improntate al buon senso (definire buon senso, grazie!), alle sensazioni (definire cosa sono le sensazioni e come si da loro un valore, grazie ancora!) ma anche a risultanze concrete riscontrabili, ad esempio, per mezzo dei programmi gestionali. In ogni caso, come abbiamo detto, si cerca di adottare criteri meritocratici.
Ma perché non funziona o funziona male, o comunque meno bene di quanto sarebbe lecito attendersi dall’investimento che si fa in ore lavoro, ed anche in danaro, per premiare il merito ed incentivare il suo perseguimento?
- Un primo motivo potremmo individuarlo nella mancanza di fiducia. I latini (e noi indubbiamente lo siamo) si fidano pochissimo degli altri, meno di quanto lo facciano gli anglosassoni o gli scandinavi, come dicono tutte le statistiche. E dato che per premiare il merito qualcuno deve decidere dove il merito sta, se non ci si fida di chi sceglie, non si accetta la meritocrazia.
- Un secondo elemento critico è costituito dalla differenza di criteri di valutazione applicabili a chi compie un lavoro misurabile, in termini di numero o di soddisfazione del cliente, rispetto a chi esegue lavori di coordinamento, di staff o di sviluppo.
- Un terzo elemento di criticità sta nella mancanza di feedback da parte dei “capi”, ma anche da parte dei collaboratori. Spesso manca il feedback positivo, un “bravo, bel lavoro, sei sulla strada giusta”, aiuta a capire che si sta lavorando bene, dà soddisfazione ed è di per sé incentivante. Ma anche un “attenzione, così non va bene perché…. e quindi prova a fare…” aiuta a capire che si sta sbagliando e perché si sta sbagliando. Capire il perché ti aiuta a comprendere il motivo dell’istruzione successiva… e quindi è motivante verso il miglioramento. Troppo difficile vero? Siamo un po’ troppo permalosi (noi latini) e spesso non riusciamo a dare feedback (positivo o negativo che sia) in modo costruttivo.
Sicuramente non mancano altri motivi che rendono difficile l’applicazione di criteri meritocratici. Abbiamo individuato questi tre ma siamo aperti ai Vostri contributi.
Un tentativo di superare questo ostacolo e di oggettivizzare, valorizzare il merito e quindi ottenere una gestione più meritocratica, nella nostra azienda è stato fatto. Vi abbiamo anche investito molte ore lavoro (e quindi quattrini), abbiamo fatto ricorso a consulenze esterne, acquisto software gestionale dedicato.
Naturalmente ci stiamo riferendo alla MAPPA DELLE COMPETENZE.
La MAPPA si propone di evidenziare, e quindi valorizzare, tanto le competenze tecniche quanto quelle relazionali! Cerca di stabilire criteri oggettivi di attribuzione del “merito”! Contribuisce all’individuazione di possibili percorsi di miglioramento! Fornisce criteri di valutazione dei progressi che ogni collaboratore compie nel suo percorso aziendale e personale!
Senza valutazione oggettiva e condivisa non è possibile evidenziare miglioramenti e senza evidenza di miglioramenti diventa difficile oggettivizzare il merito e quindi applicare criteri di gestione meritocratica.
La mappa delle competenze è la mappa del tesoro, quel tesoro che, prima ancora che l’azienda, riguarda ognuno di noi e che forse abbiamo paura di svelare. Forse abbiamo paura di vedere oggettivizzato, dimostrato e condiviso, che abbiamo in tasca meno talenti del nostro vicino.
Ma la meritocrazia (come nella parabola evangelica) non premia chi ha più talenti ma chi meglio riesce ad incrementare i propri. La meritocrazia non premia lo “status”, premia il divenire, il miglioramento. Per questo dovrebbe essere apprezzata, promossa, invocata, da tutte le persone che tengono al proprio miglioramento, all'evoluzione positiva delle proprie competenze tecniche e del proprio capitale intellettuale. La carenza di strumenti che portino a premiare il divenire e non lo status è un male che affligge il nostro Paese. Impegnamoci per sconfiggerlo almeno all’interno della nostra azienda.
VALORI, COMPETENZE, MERITOCRAZIA, QUALITA’ sono diversi aspetti di uno stesso modo di interpretare l’imprenditoria e dello stesso modo di interpretare il proprio lavorare: un percorso che, a prescindere dal punto dal quale partiamo, è un percorso di crescita, di valorizzazione, di vita.
In questo le PARI OPPORTUNITA’ consistono semplicemente nel non ostacolare alcun percorso di crescita e non modificare le valutazioni di merito, in base a discriminazioni fondate sulla diversità di genere, di religione, di cultura.
L'ASCOLTO: fase imprescindibile della COMUNICAZIONE
In famiglia, tra amici o sul lavoro, le relazioni umane si basano sulla capacità di ascoltarsi reciprocamente.
Ascoltare vuol dire essere disponibili, dedicare del tempo all’altro e, quindi, cercare di capire ciò che gli succede, cosa lo spinge ad agire.
Ascoltare vuole anche dire saper interpretare gli scambi comunicativi e i silenzi, e accettare punti di vista divergenti dai propri.
Saper ascoltare può portare ad aprire la mente a nuove idee, a nuove soluzioni, ad arricchimento della persona. E' un'abilità che può essere molto utile anche per la crescita professionale.
Applicare una più efficiente modalità di ascolto riduce le incomprensioni e induce l'interlocutore ad esprimersi a pieno senza timore: spesso stimola in lui la ricerca delle migliori possibilità espressive, anche nei contenuti!
Essere ascoltati con attenzione, senza continue interruzioni, essere guardati mentre si espone il proprio pensiero, è gratificante.
Rapportarsi al meglio con gli altri aumenta l'autostima e la fiducia in se stessi : si immagazzinano più informazioni, si eseguono meglio le istruzioni ed anche si ha maggior controllo su quelle date. Meno errori vuol dire impiegare il tempo al meglio in un clima di fiducia e di rispetto.
L’ascolto è un’esperienza multisensoriale.Le espressioni del viso, la gestualità, la postura, sono tutti elementi che potenziano molto le capacità comunicative, se non le osserviamo diminuiamo la nostra capacità di ascolto. In determinati contesti il contatto fisico è la prima occasione di comunicazione e quindi di ascolto: come ci stringiamo la mano è già comunicazione, è già opportunità di ascolto.
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